QUANDO BEVEVO ACQUA E CLORO E NON RED GOON...



Cazzo.

Ho iniziato a scrivere per un magazine online e mi vengono assegnati argomenti che non avrei mai pensato di trattare. Come i film israeliani, per esempio. O le mostre fotografiche: e non mi riferisco, purtroppo, ai selfie che mi faccio con l'iPhone - lo so, è un peccato, ma vi prometto che a fine articolo ve ne posto uno. Ma la cosa più tragica è che, incredibilmente, non mi è concesso inserire parolacce nei miei testi, e quindi ho sentito l'impellente necessità di piazzare un bel cazzo lì come prima parola e di ripeterlo ancora e anche un'ultima volta: cazzo.

La Gazzetta dello Sport ha recentemente premiato l'uomo dell'anno, e ha meritatamente vinto Gregorio Paltrinieri. La cosa triste è che metterei la mano sul fuoco che la metà di voi non ha la minima idea di chi sia. Il caro Greg, classe '94, è il detentore del record mondiale nei 1500 metri stile libero. Lo ha conquistato un paio di settimane fa agli Europei di nuoto, ma nessun telegiornale ha ritenuto necessario riportare la notizia. Che credo sia okay. Cioè, sarebbe okay se la priorità non fosse stata data al nuovo film di Pieraccioni che non farebbe ridere nemmeno se tutte le battute fossero sostituite da rutti e peti.

A me l'impresa nel nuoto azzurro agli Europei ha impressionato (andate a cercarvi i risultati se non siete informati), ma soprattutto mi ha fatto venire in mente i remoti anni in cui anche io ero una giovane promessa della vasca da bagno.

Iniziai a fare nuoto all'età di sette anni, e a nove ero nel team dell'agonismo.

Il passaggio sembra molto facile, detto così, ma in realtà non lo fu affatto. Anzi, fu traumatico.

Mi aveva notato Massimo, atleta olimpico mancato (andò in sovrallenamento e non poté partecipare), che insegnava nuoto a mia madre, al mattino. Ne parlò con lei e un pomeriggio, mentre io mi divertivo a fare la foca con le mie amichette delle elementari, venne a prelevarmi dalla mia corsia e mi portò nella vasca esterna, quella dove si allenavano gli agonisti.
La società per cui ho nuotato più di una decade si chiama DDS, e premiava i progressi con delle rane di tessuto da cucire sulla cuffia. Più eri bravo, più ne collezionavi; e a ogni colore corrispondeva un livello. Le avevo conquistate tutte, fiera - soprattutto perché i miei amici avevano iniziato il corso un anno prima di me ed erano ancora indietro. Beh, insomma, le avevo conquistate tutte, ma quando arrivai nella vasca degli agonisti mi resi conto che ero l'unica deficiente ad avere il costume della FILA pieno di rane cucite.

Gli agonisti non avevano bisogno di dimostrare di saper nuotare, che razza di figura stavo facendo?
Mia madre mi scucì tutte le rane guadagnate con tanto cloro nel naso.

Ma la mia esperienza agonistica iniziò malissimo per altri motivi.



Quando frequenti un corso di nuoto, per quanto tu mi voglia far credere che fatichi e ti stanchi, in realtà non fai proprio un cazzo. Quindi non avevo bisogno di occhialini, perché era più il tempo che passavo ad ascoltare le indicazioni dell'istruttore e a chiacchierare con i compagni di corsia, che quello che trascorrevo con la testa effettivamente sott'acqua.

Arrivai nella piscina fuori, dove incontrai Luca Sacchi, terzo alle Olimpiadi di Barcellona '92, che al tempo era ancora allenatore.
Io posso dire di aver nuotato con gli squali. Mi mandavano sotto per sorpassarmi e non si curavano di evitarmi: mi passavano letteralmente sopra. Bevvi così tanta acqua che ormai i medici mi dicono che per me il fabbisogno giornaliero è ridotto a una lattina.

Non avevo la minima idea di che cazzo stesse succedendo. Tutti parlavano in metri e nessuno che mi dicesse quante dannate vasche dovessimo fare. Ed è qui che si svela un altro mistero.

Se tu mi parli di vasche, io capisco immediatamente che tu non sai nuotare tanto bene quanto stai cercando di farmi credere.
Chi nuota, parla in metri. Le vasche le lasciamo ai bagni.
Un altro segreto sono gli occhialini, amici: se non usi gli svedesi non mettere nemmeno piede in piscina. Ma sono cose che ho imparato col tempo.

Il problema più grande erano gli occhi. Mi bruciavano da impazzire, e non avevo il coraggio di dirlo a nessuno. Credo fosse evidente però, credo stessi lacrimando sangue.
Ed è a questo punto che accadde una cosa che mi avrebbe dovuto far intendere che dovevo scappare a gambe levate, all'istante.
Mi fecero uscire dall'acqua e mi accompagnarono alla fine della vasca, proprio dove c'era una pompa d'acqua. Misero un dito davanti al tubo verde e mi dissero di tenere gli occhi ben aperti. Poi iniziarono a spararmi un getto di acqua gelida nelle palle degli occhi. Un idrante. La chiamavano "acqua pulita, che mi faceva bene".

Prima di quel giorno avevo gli occhi verdi ed ero una bambina brava. Ora ho gli occhi neri e sono satanica.

Poi mi ributtarono nella vasca degli squali fino alla fine dell'allenamento. Il resto non me lo ricordo sinceramente, perché credo che quel cannone di "acqua pulita" mi abbia mandato in coma.

Così ebbe inizio la mia carriera da agonista. Una carriera che non mi avrebbe portato da nessuna parte, e lo seppi dal primo giorno in cui mi misi una una cuffia in testa.
Ero solo felice di una cosa: mia madre non mi avrebbe più accompagnata negli spogliatoi e tutti i riti per prevenire i pidocchi avrebbero finalmente avuto fine.
La mia scuola elementare, infatti, pareva essere invasa dai pidocchi, e la piscina era un posto pericolosissimo: avrei potuto beccarli. Ma non li ho mai presi, e sapete perché? Mia mamma conosceva dei segreti incredibili: innanzitutto, dovevo sempre lavarmi i capelli con l'aceto bianco, ma, soprattutto, dovevo mettermi una calzamaglia in testa sotto la cuffia di lattice. Esatto, avete letto bene e no, non ho intenzione di ripeterlo. Se volete, ve lo rileggete da soli.

Insomma, ho passato la mia infanzia ad avere i capelli intrappolati in un paio di collant come i rapper neri degli anni '90, e a puzzare di insalata andata a male.

La mia prima gara fu di triathlon e fu all'Idroscalo. Non solo riuscii a finirla, ma non presi nemmeno la malaria nuotando in quelle acque.
All'inizio eravamo tutti obbligati a fare anche triathlon, uno sport che è capace di regalarti un'anteprima dell'Inferno. Ma i miei genitori, in occasione della mia prima gara, mi avevano donato un paio di occhiali da sole Decathlon e io li avevo indossati fiera al mattino, al concerto di flauto di mio fratello bancario. Mi avevano anche comprato le stringhe delle scarpe a coda di maiale - e se non sapete cosa sono, non avete mai fatto triathlon e quindi non meritate di saperlo. Anche mio fratello Lupo le aveva ricevute, perché era ancora piccolo e non era bravo ad allacciarsele da solo.

Ricordo bene le parole di Luca Sacchi. Mi disse che potevo mollare se ero troppo stanca.
Prima vi ho detto che sapevo che la mia carriera da nuotatrice non avrebbe avuto alcun futuro: io non ho ambizione, ma questo non vuol dire che io mi ritiri a metà gara.
Ricordo ancora meglio i complimenti di Luca Sacchi per aver concluso tutte e tre le prove. Ricordo che al traguardo i miei genitori mi aspettavano con il mio accappatoio bianco a pois rossi.



Quando lo indossai mi sentii un po' come quando mi presentai a bordo vasca con il costume pieno di rane cucite. Sembravo una completa deficiente, ma avevo appena finito una gara di triathlon. E voi quando l'avete fatta?

Di gare di triathlon ne feci altre, e come premio i miei mi regalavano sempre un'enorme focaccia.

Il cibo alle gare era un argomento critico per me. Mi sono sempre allenata con dei campioni, che a pranzo, nella pausa fra le batterie del mattino e quelle del pomeriggio, cercavano i ristoranti che servissero pasta in bianco e bresaola. Io volevo sempre andare da McDonald's e dopo aver mangiato collassavo in macchina. Mio padre teneva il motore acceso cosicché non si spegnesse il riscaldamento, e poi mi rituffavo in acqua con un peso sullo stomaco che dovevo aggrapparmi alla corsia per non affondare.
Vi direi volentieri i nomi degli straordinari nuotatori con cui mi allenavo, ma purtroppo nessuno ha sfondato. Nonostante mi trattassero come una merda perché ero la più lenta del gruppo e a malapena mi rivolgevano la parola. Vivevano per il nuoto, stavano a dieta e non si prendevano una pausa nemmeno in vacanza al mare. Eppure siamo finiti tutti nello stesso posto: nel dimenticatoio della DDS. Siamo gli atleti di dieci anni fa, bravi ma non abbastanza: quindi, cari stronzi, il vostro livello, col senno di poi, era, in fondo, merdoso come il mio.

Il mondo dell'agonismo non è un mondo facile, soprattutto nello spogliatoio femminile. Bastava che una si assentasse un giorno che le altre le davano immediatamente addosso.
"Lei è arrivata qui che era delfinista, ora se la mena da ranista, ma è solo grazie alla DDS se sa nuotare a rana." La ricordo così bene questa frase: "Bea, tu non glielo vai a dire, vero?" Ma a me non fregava un cazzo, io volevo solo arrivare a casa e fare merenda.

I primi anni, tutto sommato, furono i più facili.
L'allenatrice era Barbara. Potrei descriverla come cattivissima, ma non sarebbe abbastanza. Aveva il tipico fisico della pera e urlava come una forsennata. Gridava sempre, gridava forte. Spesso mi sgridava, ma a me interessava poco, a tratti pochissimo; fino al giorno in cui urlò: "Bea! Tu sei fresca come una rosa!" Penso si riferisse al fatto che non dimostravo di aver fatto abbastanza fatica e che quindi non stavo andando abbastanza veloce, ma vi lascio immaginare quando questo mi ferì. Se non fosse che un'amica di famiglia che faceva il corso di nuoto nella corsia accanto udì tutto, e lo andò a raccontare a mia madre. Che rise molto. E per anni me lo rinfacciò.

Per la corsa, invece, ci allenava Natasha. Natasha veniva dall'est ed era gravemente rachitica. Aveva gli occhi color del ghiaccio e stava sul cazzo a tutti. Non perché lei fosse malvagia, ma perché eravamo nuotatori, e della corsa a noi non fregava niente. Però eravamo obbligati, e quindi si andava il giovedì alla pista di atletica e si correva come disperati. Con qualunque temperatura. Con la magra Natasha facevamo anche potenziamento in palestra. Ricordo che a me piaceva imparare a fare le spaccate insieme a tre gemelle, perchè Natasha stava sul cazzo a tutti. Devo ammettere però che è grazie a lei se oggi sono piuttosto snodata. Quando facevamo stretching mi si sedeva sulla schiena e io mi chiudevo perfettamente: la mia pancia toccava le mie cosce, e la mia testa i miei polpacci. Ero perfettamente piegata in due, e per quanto Natasha fosse denutrita, io soffrivo come un cane sotto il suo irrilevante peso.

Gli anni passavano, gli allenatori cambiavano, ma il mio rapporto con le gare rimaneva sempre lo stesso. Io non solo odiavo fare le gare, io avevo una paura folle delle gare.
Mi alzavo alle 7 di mattina della maggior parte delle domeniche per andare in varie zone della Lombardia. Facevo sempre la cacca, facevo sempre tantissima cacca nervosa. E quando finalmente chiamavano il mio nome e potevo andare ai blocchi di partenza, stavo immobile davanti alla vasca. Tutti scaldavano i muscoli saltellando, agitando le braccia e simulando la nuotata. Io non sbattevo neanche le palpebre. Pensavo solo all'acqua gelida che presto sarebbe entrata in contatto con il mio corpo e a tutta la stanchezza che avrei accumulato. Ho gareggiato sui 50, sui 100 e sui 200. Quindi, male che andava, erano poco più di due minuti di sforzo, eppure era un'agonia. Perché pensateci: sveglia alle 7 (se andava bene) per essere in vasca alle 8. Riscaldamento di un'ora. Centinaia di persone in otto corsie, tutte le società mischiate che lottavano per accaparrarsi uno spazio in vasca. Non lo nego: durante il riscaldamento volavano tante botte. Tante. La piscina diventava il ring WWE e i più coraggiosi usavano le corsie per fare una 619. Alle 9 ogni società tornava alle sue panchine e gli atleti si cambiavano il costume. Si metteva quello da gara. Io non ho mai posseduto il cosiddetto costumone: costava un sacco di soldi e comunque io ero un'outsider.
Poi c'erano le varie postazioni di chiamata, di solito erano almeno un paio di stadi prima di arrivare ai blocchi. Un miliardo di giudici controllavano i tesserini FIN e io non vedevo l'ora che finisse tutto. La gara, la giornata, l'anno, la vita. E pensate ai genitori, che stavano seduti sugli spalti per ore per vedere magari trenta secondi di gara del figlio. Perché il programma di gara si scopriva solo al mattino: non sapevi se i 50 dorso sarebbero stati alle 9 o alle 12, quindi dovevi comunque presentarti per il riscaldamento delle 8 e poi attendere un paio di lustri.

Finita la gara, finalmente, ti recavi dall'allenatore, che ti diceva tempo e critiche. Era bello migliorare, del resto ascoltavo poco, perché avevo davvero tanto sonno. Era raro avere solo una gara al giorno, quindi si pescava un altro costume dalla borsa, e si aspettava ancora. Giornate intere passate in mezzo a un caos da stadio, ma invece del profumo dell'hot dog del vicino, c'era odore di cloro.

I miei genitori si annoiavano molto. Quindi si portavano sempre il giornale e io riuscivo a riconoscerli fra la folla. Erano i due Corrieri della Sera in mezzo a quelle teste. Mia madre mi chiamava sempre dalle tribune e mi chiedeva se volevo del cibo. Suppongo avrei dovuto dire di no, perché non lo avrei digerito in tempo, ma le chiedevo sempre di comprarmi del cioccolato al bar. Ritter Sport, lo hanno inventato apposta.

Sono tantissimi gli aneddoti legati alle gare che porto, nel bene o nel male, nel cuore.
Un giorno feci la staffetta 4×50 stile in vasca lunga con le tre gemelle, e vincemmo di svariati secondi. E nel nuoto, un secondo vale come un anno.
Un giorno, invece, mi accompagnò in Via Mecenate solo mio papà, che però doveva lavorare e quindi si sedette davanti alla vasca del riscaldamento con il pc. Quella vasca era vuota.
Un giorno, infine, mia mamma si portò dietro mia zia. Toccava a me, mi avevano chiamata e avevano annunciato la mia corsia. Mi guardai intorno ma non le vidi. Feci le mie vasche e uscii, come di consueto, distrutta. Le scorsi là in alto, sull'uscio. Lessi il labiale: "Bea, è andata bene? Abbiamo preso un caffè al volo."
Insomma, lo avrete capito: le gare erano un grande sbattimento per tutti.

Capitò che il mio allenatore mi iscrivesse col tempo sbagliato e io finii nella batteria dei più lenti. Io ero scarsa, ma non così scarsa. Capitò anche che volle darmi troppa fiducia e diede ai giudici un tempo di iscrizione pericolosamente basso. Mi misero fra le otto più forti, e arrivai un giorno dopo.

Ricordo distintamente la prima volta che feci un tempo da podio. Ero a Piacenza, avevo la frangia e una maglietta rossa Speedo. Era una gara all'aperto e andai a controllare i risultati con mio padre. Ero arrivata seconda. Dicemmo a mia madre che ero arrivata penultima e che non dovevamo aspettare le premiazioni. Ne fu felice: potevamo tornare a casa. E invece era uno scherzo, cazzo: avremmo sentito lo speaker chiamare come seconda classificata proprio me! Fu bellissimo. Non fu l'unica gara che mi regalò una medaglia. Al liceo, infatti, quando iniziai ad allenarmi con Thomas, vinsi tanto. I miei avevano smesso di accompagnarmi e andavo con mio fratello bancario. A volte, se arrivavo prima, vincevo anche dei fiori. Ho delle coppe.

Gli allenamenti erano terribili. Facevamo sei chilometri al giorno, ed ero in piscina praticamente tre ore sei giorni su sette. Un giorno era resistenza, un altro velocità, un altro chi lo sa. Fatto sta che il giorno riposo non arrivava mai. Alle medie, la mia compagna Giulia telefonava a casa mia ogni santo giorno alle 3 del pomeriggio, e mia madre le rispondeva che ero agli allenamenti. In classe lo sapevano tutti che nuotavo, ma non lo avevo detto ai prof. Un venerdì in mensa mi si avvicinò quella di francese. Mi riferì che aveva saputo che facevo agonismo e mi fece i complimenti. Nei fui molto felice.

A volte in piscina succedevano cose bellissime, altre volte cose tristi.
Quando Massimo si arrabbiava ci faceva uscire dall'acqua e fare tre ore di crossfit. A bordo vasca, in costume. Una volta scivolai. E niente, mi rialzai acciaccata e ricominciai. Oppure Massimo ci gridava di fare tutto l'allenamento a delfino. Un giorno tutti sbagliarono un 50. Tutti tranne me. Quindi Massimo disse che dovevano iniziare a nuotare solo a farfalla. Tutti tranne me, che avevo fatto giusto. Ma ero così intimorita che anche io andai a delfino.
Quando Massimo si infuriava, invece, ci sbatteva fuori e ci cacciava negli spogliatoi. "Fuori. Ci vediamo domani", diceva. Gli altri lo supplicavano di continuare l'allenamento e si scusavano. Io non gli davo nemmeno il tempo di finire la frase che ero già sotto i fon ad asciugarmi i capelli e a mandare un SMS a mia madre: "Massimo ci ha buttati fuori, abbiamo già finito." A me quei giorni piacevano da matti.

Ricordo gli allenamenti a settembre con Massimo. Dovevamo tornare in forma dopo le vacanze e quindi correvamo due ore. Nei campi di grano e poi nei campi di calcetto. Non potevamo bere perché "ci si gonfiava lo stomaco", quindi Massimo controllava che sputassimo l'acqua della fontanella; ci era concesso solo rinfrescarci la bocca. Dopo le due ore all'aperto, ci tuffavamo. Ed era la cosa più faticosa del mondo: i muscoli erano duri, affaticati e pesanti. Stare a galla, anche per noi agonisti, era uno sforzo non indifferente.

Mi bastavano due giorni per perdere quei cinque chili che mettevo su ogni estate. Era bello, sotto questo aspetto.

Nuotare era fantastico perché potevo mangiare davvero tanto. E stalkerando i miei ex compagni su Facebook mi accorgo che qualcosa in me era storto allora e ha continuato ad esserlo: sono l'unica che è ingrassata 15 chili. E' che la loro passione era il nuoto, la mia era ed è il cibo.

Per un brevissimo periodo mi sono allenata con la Pellegrini. La sua fu la prima vagina completamente depilata che vidi sotto la doccia. Ne rimasi sconvolta. E ora sapete come se la ceretta una star.

Potrei parlarvi della mia esperienza natatoria per pagine e pagine, ma la morale non cambia: i miei figli faranno nuoto e se non sapete nuotare la mia stima vostri tuoi confronti cala a picco. I miei metri di misura sono i cinque metri delle bandierine e la vasca da 25: la tua via di casa quante vasche è? E la lunghezza della tua camera arriverebbe alle bandierine?

PS: Per un uomo, non c'è fisico più perfetto di quello del nuotatore, punto e fine della storia, oltre che del post.

Ecco il selfie che vi avevo promesso: Buone Feste!


B.

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